Liberalismo: morte della Politike

Gli antichi popoli Europei (Greci, Romani in primis), i quali gravitavano su un archetipo saldo e definito che permetteva loro di esercitare e, parimenti estendere – sempre mantenendo una visibile vicinanza all’archetipo – col passare dei secoli, la propria cultura ed il proprio ethos che inevitabilmente subivano il divenire storico; questi popoli, dico, furono gli stessi che in grazia delle loro virtù e della loro capacità d’attenersi ad un limite precostituito, il limite imposto necessariamente dal rispetto di un principio, di un archè, strutturarono le fondamenta epistemiche di quella che molti chiamano, ancora oggi, la politica.
In rapporto al contento etimologico della parola politica, la formulazione degli antichi Greci è estremamente obiettiva: con il termine “politike” si intendeva “tutto ciò che si attiene alla città-stato”. Ebbene, con il tale significato, i Greci sottendevano l’idea per cui i fatti, gli enti, gli esseri che avevan modo di esistere al di là dalle mura della polis (ancora una volta il senso del limite) erano elemento avulso agli interessi della “politike” – la politica era strumento in funzione degli interessi della cittadinanza e non dello straniero.
Trasponendo dunque il paradigma Ellenico – nonchè primigenio – della politica fino ai nostri tempi, non possiamo non notare che la “politike” sia stata gradualmente colpita da un tarlo roditore – perchè è di ratti che stiamo parlando – il quale si è reso capace di svilire quello spirito nobile che si manifestava nelle vetuste agorà Greche, decostruendo , in pari misura, l’archetipo della sua stessa costituzione: l’avvento del liberalismo ha comportato la morte della “politike”.
Questo nuovo ordine liberale ha comportato la nascita di una politica spuria, bastarda e vile; di una “techne politike” che ha perso le categorie referenziali del politico fino ad allora esistite (in primo luogo lo Stato ed i suoi confini); una politica che offre solo sofismi e vaghe retoriche che compenetrano nelle menti d’una cittadinanza abbindolata dalle luciferine leve del liberalismo.
Una politica dunque non più capace, tantomeno degna, di offrire “sangue e ferro” (1) alla Nazione.
Si evince quindi che la “patria idea” della politike, lo statuto primo di questa arte nata sulle olimpiche ed austere terre accarezzate dall’Egeo, abbia subito un ribaltamento dialettico – per usare termini Hegeliani – tali per cui la politica abbia negato quei principi atavici, che per millenni, pur subendo trasformazioni conseguenti alla necessità di adeguarsi al corso del tempo, erano fermi come radici d’ulivo. Inoltre, il liberalismo, ponendo particolare attenzione al raggiungimento dei propri Leviatanici fini, ha dovuto necessariamente soffocare quella “aristocrazia dello spirito” (2): unica vera casta capace di dominare la storia e la materia grazie al proprio “Geist” ed alla propria politica; con l’ablazione di tale casta, col naufragio dello spirito affogato nella materia, il liberale ha avuto modo di plasmare gli animi degli individui. Difatti se la politica è un prodotto di una specifica aggregazione, quella dimensione entro cui i popoli manifestano il proprio spirito etico, sociale e culturale, una politica come la nostra, che vive ferita da un’assenza di principio – per meglio dire possiede un principio che è “l’assenza di principio” – è altresì dimostrazione di una cittadinanza ormai immersa nella logica del liberale – poiché plasmata da esso – : priva di uno spirito tellurico e solido, la nuova cittadinanza si crogiola nell’anarchia, nella liquida forma, contravvenendo ad un ordine, tale per cui, la “politike” possa dirsi tale.
Orbene, il liberale è, per citare Nietzsche, “l’assassino di tutti gli assassini“: egli ha ucciso la “politike” che, morendo, si è macerata, decomposta, emanando “velenosi profumi” (3) i quali hanno reso l’aria satura, priva d’ossigeno; tali sentori di morte hanno ostruito la ratio ed offuscato la nitidezza delle idee a quella compagine cittadina che, ormai ammaliata dai “velenosi profumi”, si è posta supina dinanzi all’apparente grazia di questa nuova “realtà profumata”, accettando il processo di palingenesi e decadenza politica – unica condizione, quella di una politica fragile, languida e decadente, per cui la potenza d’imperio del liberalismo possa esprimersi (poiché il liberalismo può imporsi solo dove non vi è “politike”).
Ed è così che gli uomini della modernità cedettero la vera libertà: la libertà dello spirito – antonimo della libertà in senso liberale; e dunque, con la morte della “politike” abbiamo riscontro di fenomeni prima di allora inimmaginabili: perso il rispetto dell’interesse nazionale, la politica ha sconfinato “al di fuori delle mura della polis”, vendendosi allo straniero, o sarebbe meglio dire, al barbaro; facendosi transnazionale e superando il limite precostituito, la politica si è imposta come forza internazionalista – esportatrice di “democrazia” – e, come unico riflesso condizionato, talune circostanze hanno potuto creare politici servi di interessi terzi, privati, particolari: “servi dell’Unione Europea” (4) alieni alla propria Nazione.
Questa dispersione dello spirito politico poteva essere incarnata solo dal liberale, dall’individuo che sporcandosi di ipocrisia e sostenendo la necessità di tali azioni in nome della “libertà”, ha varcato la traccia del limite, si è preposto di tramontare in quell’orizzonte d’eterna libertà e benessere che pure non potrà mai vedere – dal momento che è tanto ibrido quanto cieco come Tiresia di Tebe.
Il liberale, essendo frutto di una anarchia dello spirito che poi viene estrinsecata in tutte le sue azioni (an-arche: assenza di principio), potrà essere sconfitto dall’ordinata azione di chi possiede la disciplina nell’esercizio del limite, dall’intransigente della politica che riconosce, in maniera netta, le barriere del proprio “esser-ci”.

Note:
1) cit. del cancelliere Prussiano Otto Von Bismarck
2) cit. conferenza CriminiDem 20-10-23
3) in riferimento ai “velenosi profumi” sto parlando di monetarismo, materialismo, internazionalismo
4) cit. del nostro ex Presidente del Consiglio Romano Prodi

Autore:
Daniele DF

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