
C’è qualcosa che separa il XXI° secolo dal XX°, e sicuramente è il concetto pratico di militanza.
Se tutto il cielo del 1900 è stato cosparso dalle stelle di un’ azione ideologica attiva, o quanto meno una o l’ altra ideologia è stata mantello dei fini materiali delle diverse associazioni socio-politiche, l’ attuale millennio si dimostra passivo al concetto di militanza e dove questa venga applicata ne è stato squarciato il velo ideologico.
Ora qui porrò una domanda per la quale invito i calorosi lettori ad avanzare risposta:
cosa dovrebbe essere, per noi dall’ ardente spirito, oggi, la militanza?
La domanda in questo caso non è posta a fini teorici, ma a netti fini pratici. Lo stato della militanza continua a rappresentare teoricamente quell’ azione ideologica attiva di cui sopra, ma come dovrebbe essere posta, nell’ atto, tale azione? Il dubbio proviene dalla crisi della militanza su campo, dovuta ad un unanime condanna alla violenza – quand’ anche fosse motivata e legittima – trasformatasi successivamente nell’ altrettanto unanime condanna all’ azione. Chi dissenta è un criminale, o comunque, un facinoroso.
Noi che però non crediamo alle convenzioni universali, in quanto ogni Stato con la sua nazione e col suo popolo rappresenta un determinato spirito, o se vogliamo il simbolo di uno spirito, dovremmo porci la questione della militanza come fondamentale.
Trascorriamo oggi la vita in una società atomizzante l’ uomo su ogni piano, i quali governanti economici tirando i fili della più bassa politica, e dei più piccoli uomini, agiscono secondo la pratica del divide et impera, attuando poi lo scredito di coloro che non piegandosi possono solo venire spezzati o isolati. Ci risvegliamo in questa scura realtà carica del segno dell’ ostilità reciproca e dell’ apatia assoluta, la quale svanisce solo una volta raggiunto il suo culmine, svuotato da atti di criminosità apparentemente insensati, ma che rivelano la ragione della crisi – non è un caso che questa sia l’ epoca delle malattie mentali. Sprovvisti di riferimenti, prigionieri di un progetto che precede i nostri natali e contro cui nulla apparentemente possiamo, uno spiraglio di fioca luce si mostra a noi nella reazione, nel non rimanere fermi a bruciare nel vortice del vittimismo per sua natura passivo: agendo attraverso la dottrina della militanza.
Certo, ora le nostre forze sono concentrate nella formazione di noi stessi, formazione la quale, però, non possiamo permettere rimanga sul solo piano intellettualistico: non potendo attaccare, si è deciso di ritirarsi in trincea, in attesa che il nemico vacilli e affilando nel mentre la nostra spada. Quando però queste nostre forze formatrici non vengano canalizzate e unite in un unico fascio di spighe, ecco che si disperdono e falliscono. La militanza è lo strumento necessario ad unire le genti dell’ Ethos per farne qualcosa di più grande, ma questo è possibile solo quando il concetto stesso di militanza rientri nelle righe della disciplina militare e abbandoni gli scopi utilitaristici della lotta partitica e parlamentaristica.
Ahinoi, la militanza “attiva” si è ridotta al semplice volantinaggio e affissione, riducendo quella milite manifestazione di vita in una banale agenzia pubblicitaria di dubbio valore. Si è abbassata a rinnegare la sua legittima immobilità andando alla ricerca dei più bassi consensi, e in ciò conformandosi e degradando quei principî superiori da lei propugnati. L’ atto deve rimanere puro, non cadere vittima del compromesso: quando la militanza tornerà ad essere ferma come il tempio in cima alla montagna, e organizzata come un esercito, agente per l’ idea e non per la massa, gli uomini assurgeranno nella fede nostra riempiendo le camerate, ed anche quando non fossero colme, l’ ardore dei pochi brucerà al rogo l’ inanità dei molti.
Vorrei rimarcare il concetto d’ immobilità, il quale – per farlo meglio comprendere – dovremmo distinguerlo da quello d’ immobilismo. L’ immobilità non è l’incapacità di agire, ma la capacità di intuire quando l’atto sia legittimo o meno, necessario o meno. Non è quindi il piede in casa, tanto meno è sintomo di paura, quanto è piuttosto la fiera cura e conservazione degli ideali del tempio, che in quanto sacri non possono essere profanati cercando di imboccarli a chi non ne sia degno, non interessato o semplicemente ostile. Massificando l’ Idea si potrà solo raggiungere il punto in cui – tramite le bocche di tutti, viziate a sporcare i concetti o sviarli dalla loro iniziale condotta – questa diventi talmente opaca da non più illuminare, rendendola inefficace anche per coloro i quali la sua luce avrebbe indicato il cammino.
L’ immobilità è dunque, in questo caso, la via della comunità interna, la quale può agire all’ esterno solo quando sia rigogliosa e fruttuosa, quando abbia dunque quella sostanza etica tale da conferirgli potenza d’ azione. Ci si chiederà come si possa contribuire a questa sostanza, e la soluzione al quesito sarebbe semplice: Gerarchia.
Immaginando una sana comunità militante, verrà naturale vedere lucidamente la sua forma ordinata da ruoli affidati in misura alle capacità di ognuno, secondo una Gerarchia di meriti e di personali dignità, con lo scopo d’ innalzare la realtà della comunità fino alle più alte vette, senza mai tradirne i principi. È da escludere perciò la concezione della militanza come quella della famigliola felice, ma anche quella che la vedrebbe come causante disagio e inadeguatezza (chi sia veramente inadeguato difficilmente potrebbe riuscire ad entrare nel tempio, verrebbe bloccato all’ ingresso). La militanza è l’ordine in cui ognuno è funzionario della comunità interna – composta da fratelli, camerati – e in quanto tale, stando al proprio posto di competenza, è fiero e operante e non conosce inadeguatezze.
Bisogna realizzare l’ eterno e non consegnarsi alla contingenza della storia, come per il limite posto alla vita dalla morte, tornando a vedere il tempo come una linea verticale piuttosto che orizzontale: ridistribuendo valore al tempo e ai suoi simboli ricorrenti. In questo ideale d’ eternità la militanza torna ad essere Ordine, e in quanto tale risorge nella sua esclusività ripudiando l’ inclusività: perché gli uomini non sono tutti uguali.
Solo a chi ne possieda la dignità è permesso varcare le porte del Tempio che è nostro dovere edificare, e chi ne varchi la soglia, si spoglia dal nero reame fisico dei bisogni e delle necessità, si purifica nel bianco latte della luna e risorge grazie al suo rosso sangue nobile, sotto i raggi del sole, illuminato e glorioso, pronto a compiere il suo dovere lottando per l’ideale.
Una cosa è certa, che sia Ordine o militanza, non bisogna partecipare al gioco democratico e parlamentare, il quale ci porterebbe inevitabilmente a decadere nell’ ipocrisia dei suoi metodi e delle sue concezioni.
Un altro fondamento della militanza, che non si può ridurre a poche righe, è quello che riguarda la fratellanza tra militi dello stesso Ordine. Le spighe dello stesso fascio per essere forti devono essere unite – nella libertà più consona ad ognuna di loro – e se la fede ultima è per ognuno la stessa, è necessario che si sia anche fedeli l’ uno all’ altro. La massima è quella di essere come una testuggine romana: nella sua compattezza, nel suo ordine, potente, la quale può però funzionare solo quando ci sia un organizzazione salda, quando perciò lo spirito di ogni legionario si unisca in un’ unica fiamma, dando prova della fedeltà e dello spirito cameratesco che ogni sodale ha per l’ altro.
In questo si intravede di nuovo la libertà.
La libertà di scegliere con chi vivere, con chi lottare, con chi morire. La libertà di giurargli eterna fedeltà, e di onorare tale giuramento, sempre. La libertà di farlo fratello, padre, o figlio, conferendo alla scelta un valore immane, poiché dettata dalla libertà grandiosa del cuore.
Ecco allora le parole d’ordine: Militanza. Gerarchia. Fratellanza.
Si sia pronti dunque alla creazione del tempio della comunità interna, il quale prima ancora di essere fisico è spirituale. Si sia pronti, secondo la dignità di ognuno, a comandare ed essere comandati. Si sia pronti infine a difendere i fratelli come se avessero lo stesso nostro, vostro sangue, perché lo hanno e fluisce come fiume nello spirito, perché sono della vostra, della nostra, stessa razza.
Autore:
Emanuele Ennio Quattrini