Oppenheimer, Corbino e-o Prometeo (parte II)

Oggi inserendo il nome di Fermi in un motore di ricerca appare un lungo elenco di scuole e licei di tutta Italia intitolati al genio scientifico, istituti dove vengono insegnati ai ragazzi valori etici e morali, con un orientamento ideologico ben mirato. Più di vent’anni fa, in un’intervento alla Scuola Normale di Pisa, l’allora Presidente del Senato Marcello Pera sostenne che Enrico Fermi fece una scelta personale: “difese i cittadini americani e con essi, difese l’Occidente, la nostra cultura, i nostri valori”. Quali immacolati valori avrebbe difeso Fermi, a “nostro” nome?

Ripercorriamo anzitutto la strada verso il successo del Fermi. Nel 1926 un più dimenticato Orso Mario Corbino, allora ministro dell’economia nazionale, lo chiamò a presiedere la cattedra di fisica teorica; successivamente, nel 1929 lo stesso Presidente del Consiglio (il Figlio del Fabbro) lo nominò accademico d’Italia nel Consiglio Nazionale delle Ricerche, fondato pochi anni prima nel 1923. Le scoperte di Fermi e dei Ragazzi di Via Panisperna riguardavano il processo base utilizzato nella ricerca e nello sviluppo che condusse alla produzione dell’energia atomica. Gli accademici ricevevano una pensione, per cui il Fermi poté lasciare il lavoro al CNR e all’Enciclopedia Italiana, cui si era dedicato da tempo (soprattutto per arrotondare lo stipendio). Passarono gli anni e la fisica nucleare ottenne successi inimmaginabili, Corbino spinse per far conoscere i Ragazzi di Via Panisperna in tutto il mondo, tra pubblicazioni editoriali, partecipazioni e organizzazione di eventi, fino alla sua morte avvenuta nel 1937. Da allora la maggior parte dei fisici italiani emigrò verso il paese a stelle e strisce per guadagnarsi “prestigiose cattedre” e accumulare gruzzoli più consistenti. Nel 1938 rientrò in Italia l’altro scienziato d’Agostino con 5 contratti per Fermi, mentre la moglie, di origine ebrea, consigliava di rimandare in America i contratti sottoscritti da differenti uffici postali, per non dare nell’occhio. Egli aveva uno stipendio che andava dalle 5.000 alle 6.000 lire come professore universitario e 12.000 come accademico d’Italia. Fermi scappò non certo per problemi razziali della moglie, come si vuol far credere, ma per la sua natura palancaia dietro cui c’era una lunga e complicata storia di lucrosi contratti firmati con gli americani, una strategia rooseveltiana indirizzata ad accelerare la ricerca atomica ai soli fini bellici. 324458 fu il numero di brevetto per produrre sostanze radioattive.

Commentano d’Agostino e Rossi sulla Treccani, riguardo all’americanizzazione del Fermi: “ormai il periodo romano del F. volgeva alla fine. Da anni egli aveva stabilito legami con i fisici d’Oltreoceano e nel corso delle sue visite aveva maturato viva simpatia per gli Stati Uniti e ricevuto offerte per prestigiose cattedre”. La prostituzione a interessi mercantili prese vigore. Per fare ricerca serve denaro: le risorse umane e le attrezzature sono costose. Quello che conta nei tempi moderni è la quantità dei risultati, molto più della qualità. Nelle università si è rispettati e apprezzati solo se si scrivono tanti articoli e questo è reso possibile da una larga schiera di studenti indottrinati e ricchi finanziamenti. Il ricercatore è quindi un manager alla spasmodica ricerca di denaro. Specificherà Emilio Segrè nei primi anni Cinquanta che ognuno dei ragazzi di via Panisperna avrebbe ricevuto 28000 dollari di allora per il brevetto dagli americani, dopo anni di trattative e dispute legali. Il Giappone invece pagò con l’uccisione di una massa di esseri umani compresa tra le 152 mila e le 200 mila vittime.

Un ulteriore dettaglio degno di attenzione è riportato da Barton Bernstein, docente di storia della Stanford University, che durante le ricerche sulla storia della bomba atomica condotte presso gli archivi della Library of Congress da poco resi pubblici, ha scoperto una lettera di Oppenheimer a Fermi, datata 25 maggio 1943, nella quale si discuteva la possibilità di contaminare con radiazioni il cibo destinato ai nemici. La risposta del nostro Prometeo male incatenato fu: “raccomanderei di ritardare, se possibile. In questo contesto, penso che non dovremmo tentare l’attuazione del piano a meno che non siamo in grado di contaminare cibo sufficiente a uccidere mezzo milione di persone” (si pensava allo stronzio 90). Bisogna scartare quindi le soluzioni che non siano rapide ed efficienti, che ottimizzino i costi e gli effetti desiderati, vittime umane incluse. Gli emissari della pace perpetua prima pensano come annientare i propri nemici nel modo più inunano immaginabile, scavalcando le convenzioni che loro stessi hanno fondato, per poi offrire a noi lezioni di moralità.

Se ciò non bastasse, tra i falchi del comitato scientifico che riuscirono a convincere l’Interim Committee incaricata di sganciare le bombe atomiche rientrava anche Fermi (assieme al suo amico Oppenheimer). Lo “Scientific Panel”, di cui faceva parte anche lo scienziato italiano, ritenne poco convincenti le argomentazioni del rapporto Franck per disincentivare il suo uso, e spinse per l’utilizzo immediato della bomba in Giappone, “una applicazione militare molto più adatta ad indurre alla resa”.

Enrico Fermi è da tempo entrato nell’Olimpo dei Grandi Italiani, e lo venerano anche coloro che non hanno letto una sillaba dei suoi lavori e non comprendono una sua mezza formula. Egli è ormai un santino: la sua fronte spaziosa, gli occhietti allegri e penetranti, il suo sorriso bonario sono ormai fissati nell’inconscio popolare come certe figurine stereotipiche, Babbo Natale o Robin Hood, con le caratteristiche però di una prostituta accademica plurititolata, nonché di un tecnocrate assetato di fama e pecunia, che pretende di estendere il suo dominio a campi che non lo riguardano, inebriato di tracotanza.

Non credo che i ragazzi e le ragazze di Hiroshima-Nagasaki frequenteranno mai un Istituto Enrico Fermi.

Autore:
Jacopo Davoli

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