
Una volta Dominique Venner disse che esistere è “combattere ciò che mi nega”, con l’intento di risvegliare nell’animo dell’uomo europeo una consapevolezza della profondità della propria civiltà, minacciata dai miti egualitari del progresso e del modernismo.
Si può dire che la morale anglo-americana, al contrario fondata sui miti del progresso e dell’universalismo, abbia adottato la formula opposta a quella del militante francese: esistere è “negare ciò che mi combatte”, cioè, considerare come un’anomalia ciò che è di natura diversa da essa.
La Seconda guerra mondiale è stato il trionfo di questa formula. Non bastava sconfiggere il nemico con le armi; bisognava cementare la propria vittoria con la forza del diritto e della legge e assumerla come metro universale. Ancora meglio, la Vittoria è assicurata definitivamente quando si minano le certezze nella mente del nemico in quanto “scuotere la sua autoconsapevolezza storico-filosofica è, in proporzione, un’arma più efficace della bomba atomica”, citando Carl Schmitt.
Vediamo un esempio pratico di questi due modus operandi in un film di propaganda americano datato 1945. Your Job In Germany è un documentario realizzato dal War Department di Washington e diretto specificatamente alle truppe alleate di stanza in Germania. Si tratta quasi di un manuale, una lezione di quindici minuti che illustra al soldato anglo-americano il suo nuovo compito nel paese da poco sconfitto.
La premessa del docufilm è che il dovere da svolgere è un favore ai propri figli, in quanto già due generazioni di americani sono state chiamate per fronteggiare i tedeschi e lo stesso potrebbe accadere fra altri vent’anni “ai vostri figli”. Il nemico non è più la croce uncinata, ma la Germania stessa.
La natura del problema da affrontare viene illustrata iniziando come la più classica delle fiabe: l’inquadratura su un libro chiuso, sulla cui copertina il titolo “German History” è scritto con caratteri gotici. Ricorda troppo evidentemente la scena di apertura di Biancaneve di Walt Disney, uscito solo otto anni prima nel 1937 e che ottenne un grande successo nei cinema. L’inquadratura è seguita dall’avvertimento lapidario: “state affrontando la storia tedesca… e non è buona”.
Il contenuto del libro “German History” è suddiviso in tre capitoli per tre Fuhrer diversi: il Cancelliere Bismarck, il Kaiser Guglielmo II ed il nazionalsocialista Adolf Hitler. Per tutti e tre i capitoli il filo rosso è sempre lo stesso: prima i prussiani, poi i tedeschi hanno sempre seguito la guerra quasi come una religione ed il sangue come un dio; automi programmati per la violenza di cui non ci si può fidare. Dipinto come la più grande minaccia alla sicurezza del mondo, il cittadino tedesco comune sembra equiparato non più come un potenziale criminale, ma un animale che da un momento all’altro potrebbe mordere. Deve quindi essere addomesticato.
Fatta questa illuminata lezione di storia, al soldato alleato viene spiegato cosa deve fare nel concreto: immaginate un secondino in una prigione di massima sicurezza in cui ogni prigioniero è un sorvegliato speciale.
Il soldato:
- non deve fraternizzare;
- non deve avere discussioni;
- non deve essere aperto;
- non deve avere rapporti con nessun uomo, donna o bambino.
Il soldato deve essere sospettoso di chiunque perché tutti quanti hanno fatto parte del sistema nazista. In particolare, deve guardarsi bene da “questo gruppo in particolare. Questi sono i più pericolosi… la gioventù tedesca”.
Riecheggiano le parole di approvazione di Roosevelt in merito al Piano Morgenthau, quando disse che “dobbiamo castrare il popolo tedesco oppure trattarlo in modo che non possa riprodurre gente che voglia continuare a comportarsi come hanno fatto in passato”.
Verso la fine del filmato, sono chiare le intenzioni degli alleati, ora passati da nemici che riducono in cenere Dresda e consegnano metà dell’Europa a Stalin, a carcerieri inflessibili, ad esorcisti di Weltanschauung opposte. «Devono provare di essere stati curati, prima di essere riammessi nel loro posto fra le nazioni rispettabili».
Esiste un altro documentario alleato, dal titolo Here Is Germany e sempre datato 1945, in cui lo scopo (o il desiderio) statunitense è forse più esplicito di quanto dichiarato in Your Job In Germany.
L’obbiettivo è la completa rieducazione attraverso ogni aspetto della vita germanica che deve essere sorvegliato dal governo militare alleato: educazione, industria, governo. L’occupazione continuerà finché lo deciderà Carl Schmitt (esatto, questo è il nome scelto per identificare tre generazioni di tedeschi in questo film), perché “non lo abbiamo liberato da Federico [il Grande], da Bismarck e dal Kaiser, dalla sua storia e dalle sue tradizioni. Quello lo deve fare da solo”.
Quello lo deve fare da solo.
Che dire? Missione compiuta. Non solo per la Germania, ma per tutta l’Europa.
Non c’è bisogno di grandi studi per vedere che gli europei, soprattutto le più giovani generazioni, sembrino soffrire da decenni di una colpa autoimposta, una flagellazione inflitta a sé stessi doverosa se si vuole scontare il peccato originale di essere stati il centro del mondo per secoli.
Limitandoci alla Germania, possiamo vedere che il lavaggio del carattere ha funzionato per bene, viste le recenti dichiarazioni del cancelliere Scholz sul sostegno ad Israele o la Stella di David che illumina la Porta di Brandeburgo, in maniera analoga a quanto avvenuto a Roma per l’Arco di Tito.
In generale, quell’aspettativa dell’uomo tedesco (e per estensione, europeo) che si libera di Federico, di Bismarck, del Kaiser, dalla sua storia e dalle sue tradizioni non ha mai trovato così evidente realizzazione come nell’estate 2020 durante le manifestazioni BLM. Abbiamo visto una generazione scendere in piazza per un fatto di cronaca interno agli Stati Uniti che non meritava attenzione al di fuori degli States. Abbiamo assistito a città secolari vandalizzate e trasformate in una deprimente protesta verso gli europei che devono provare di essere stati curati, cioè meno razzisti, meno discendenti di colonizzatori, meno xenofobi (e meno bianchi, magari).
L’Europa deve chiedere scusa in ginocchio (letteralmente, come è successo durante gli europei di calcio del 2021).
Finché continueremo a provare quel senso di peccato originale da scontare eternamente, quella cappa opprimente e debilitante che noi, italiani ed europei, portiamo addosso da ottant’anni, allora il secondino alleato sarà idealmente ancora lì a fare da carceriere; allora ci sarà sempre un governo militare a stelle e strisce perfino nella nostra mente; allora continueremo a leggere la nostra storia come un libro che va ristampato.
In poche parole, parafrasando Adriano Romualdi, finché la bussola dell’agire europeo sarà orientata dall’antifascismo cronico, che abbia sul comodino una foto di Churchill o che rimpianga che l’Armata Rossa non abbia avanzato fino a Madrid, continuerà ad andare avanti “la conservazione dello spirito di Yalta sul continente europeo che deve garantirne la pacifica soggezione”.
Autore:
Martino Guadagnin